20240317 Dadamaino al MAGA di Gallarate

Avviso: questa recensione è rivolta solo a chi ha apprezzato i “tagli” e i “concetti spaziali” di Fontana.

Anche se al grande pubblico potrà sembrare strano, l’artista di Rosario (Santa Fé, Argentina) è stato un caposcuola dell’informale, in un’area diversa da quella della “consueta” pittura astratta. La sua ricerca, come quella di Piero Manzoni (noto al grande pubblico per la “m.. d’artista”), è stata rivolta non a riempire la tela di segni in modo diverso, ma proprio a utilizzarla in modo radicalmente diverso.

Un’opera di Fontana dalla collezione permanente del MAGA

Sulle sue orme si è mossa un’altra sua allieva, Dadamaino.

Le sue opere normalmente riempiono alcune sale dell’ultimo piano del Museo del Novecento a Milano; ultimamente però questo piano risulta chiuso per ragioni non comunicate: un motivo in più che ci ha spinti a visitare questa mostra, unitamente alla visita del Museo d’Arte di Gallarate (MAGA) stesso (https://www.museomaga.it/ ).

Gallarate, città già di brughiere e a inizio Novecento “delle cento ciminiere”, è una cittadina che ama l’arte: lo testimoniano, oltre al MAGA, il concorso artistico alimentato dal Museo,

e le sculture esposte davanti alla Questura;

oltre alla curiosa abbondanza di edifici contemporanei dalla facciata concava.

Ma veniamo alla mostra (https://www.museomaga.it/it/mostre/208/dadamaino-1930-2004).

I primi anni di attività di Dadamaino sono sotto il segno dell’informale (Volumi a moduli sfasati, 1960-1961):

L’artista guadagna presto fama internazionale:

Un periodo è dedicato a studi ottici (Rilievi, 1960-1964 e Oggetti ottico-dinamici, 1962-1965):

Le opere cinetiche mi fanno pensare ai circuiti del nostro cervello (Componibili, 1965-1966 e l’ Inconscio razionale, 1975):

In questa fase vengono inventati nuovi alfabeti (L’alfabeto della mente, 1977):

Environnements luminocinétiques, ovvero Proposte per la città di Parigi:

Mappe di un mondo immaginario, che diventano grandi come il mondo stesso, come in un racconto di Borges (Il movimento delle cose, 1987-1996):

Molto bello lo spazio dedicato all’attività della casa di moda Missoni, fondata nel ’53 a Gallarate e tra i sostenitori del museo:

(altro sostenitore è la Ricola: troverete caramelle a volontà)

Come raggiungere il Museo: con il Passante S5 è disponibile un treno ogni 20′ circa; il tragitto da Porta Garibaldi richiede 40′.

2024-02-04 Visita alla Villa Reale di Monza (MB)

Un cartellone in metropolitana può ricordare che a pochi km dalla nostra Milano c’è una vasta reggia tutta da scoprire (Monza gareggia con Pavia come città misconosciuta ai milanesi).

In particolare, si propone un bonus: 100 pezzi di arte e design contemporanei!

A questo punto, sebbene da buon milanese non abbia mai amato molto i Savoia e in particolare Umberto I, e stimerei di più i monzesi se nel solenne Tempio Espiatorio aggiungessero una statua di Gaetano Bresci o almeno un ricordo dei morti ammazzati nel ’98 da Bava Beccaris, l’interesse è scattato. Anche perchè con il Passante Monza dista davvero un quarto d’ora di treno circa da molte stazioni (non solo Garibaldi, Centrale e Greco Pirelli: anche Lambrate, Forlanini, Tibaldi, Romolo..) ed è peraltro già inclusa nel mio abbonamento interurbano.

La Reggia (questo il sito completo) ha subìto estesi restauri negli ultimi decenni, che l’hanno portata a essere una magnifica sede di eventi artistici; splendida anche la vista sui Giardini Reali e sul Parco al di là di questi, nonché sul “cannocchiale” di viale Cesare Battisti dall’altro lato.

Il percorso espositivo comprende i due piani nobili, rispettivamente assegnati ai regnanti e a parenti e ospiti: al II piano nobile, l’appartamento con vista sul viale era riservato al Principe di Napoli, l’erede al trono; un altro alla suocera di Umberto I, duchessa di Sassonia (nonché sua zia: non sapevo che la regina Margherita fosse sua cugina prima.. sarà per questo che l’erede fu così poco brillante?). Come in tutte le visite guidate, non manca la storia piccante: al I piano nobile il passaggio segreto che permetteva a Umberto I di uscire al volo dalla reggia e raggiungere l’amante di una vita, la duchessa Litta, conosciuta quando lui aveva 18 anni e lei 25 (ma penso che il passaggio servisse più in generale da uscita di servizio). E come in tutte le visite a palazzi tra ‘800 e ‘900 (castello di Miramare a Trieste, villa Campiglio a Milano) è interessante vedere la rapida evoluzione dei servizi igienici, considerando che quelli che vediamo sono il meglio disponibile all’epoca.

Però c’è un però: al momento di lasciare la Villa per insediarsi definitivamente al Quirinale, i Savoia la spogliarono di ogni opera d’arte e della maggior parte degli arredi; unico loro contributo, l’aggiunta di alcuni lampadari con il motto sabaudo FERT e forse le sopraporte con la corona ferrea al II piano nobile. A parte ciò, nella villa sono rimaste solo boiseries, parquets e qualche affresco che non si poteva asportare; peraltro, quelli voluti da Maria Teresa d’Austria e dal Piermarini ben più aggraziati di quelli tardo-ottocenteschi di pesante gusto, appunto, “umbertino” (anche se, essendo molto elaborati, sono quelli che piacciono di più al pubblico). Insomma, alla fine la Villa mi sembra una metafora dell’Italia sotto i Savoia (fatalità: ieri è morto l’ultimo discendente che avesse avuto qualche sogno di regno).

Tuttavia, in questo momento la visita è arricchita da una mostra di arte contemporanea: che va da un magnifico “Ratto di Proserpina” di Francesco Messina, capolavoro di stile tradizionale,

a lavori contemporanei, passando per maestri dell’Informale come Vedova:

e i fratelli Afro e Mirko Basaldella:

abbiamo poi una sala dedicata a Isgrò, non solo le note “cancellature” ma una impressionante scultura allegorica (la decadenza dell’Italia, accompagnata da un sonoro russare dell’Italia turrita):

E completo gli esami con un “poster strappato”di Mimmo Rotella; lascio in fondo altre immagini.

Non abbiamo visitato il III piano, dove è richiesto un biglietto supplementare per visitare una mostra di Mirò; storicamente destinato alla servitù, fu utilizzato nel dopoguerra per ospitare profughi istriani; il restauro ha mantenuto scritte sui muri che potrebbero essere interessanti.

Altre immagini

Ecco un’altra vista e la scheda del capolavoro di Messina:

La leggendaria poltrona Up di Gaetano Pesce:

Vasi di Venini:

Arte cinetica di Grazia Varisco:

Un’opera di Carol Rama e il mobile Evolution:

2023-12-17 Quel che la notte racconta al giorno

Oltre alle mostre di grande richiamo, ci sono quelle più sperimentali; come quelle tipicamente ospitate dal PAC (Padiglione di Arte Contemporanea), progettato da Ignazio Gardella nel 1953.
Ho scelto questa mostra di arte argentina contemporanea (il titolo è un verso di Héctor Bianciotti) per l’affetto che ho verso questo paese e la sua cultura, che comprende una grande tradizione pittorica (soprattutto surrealista, come in letteratura).. per non parlare dei meravigliosi fumetti (“historietas”) degli anni ‘60/’70!
La mostra è molto interessante, ma, naturalmente, per chi apprezza l’arte contemporanea.


Se alcune opere sono un po’ didascaliche e prevedibili, come il Gesù di Leòn Ferrari, crocifisso a un aereo da guerra della USAF (opera comunque del ’66, quando il presidente Illia era stato destituito dal colpo di stato sponsorizzato da Rockefeller), o l’abbinamento realizzato da Adriana Bustos tra Olympia di Leni Riefenstahl (con Hitler) e l’inaugurazione dei Mondiali di Calcio del ’78 alla presenza di Videla; e altre di un concettualismo un po’ sterile, come quelle di Nicolàs Robbio; in diverse altre soffia decisamente la poesia: la serie di foto di Alessandra Sanguinetti sul crudo rapporto tra umani e animali nella pampa; “La spazzina”, indagine sulla memoria; i cortometraggi fantascientifici di Mariana Bellotto sull’impatto della pandemia nelle relazioni umane; la mongolfiera di Tomàs Saraceno spinta solo dal sole sulla Salina Grande, per protesta contro il saccheggio delle risorse naturali del Sud del mondo da parte del Nord, in particolare il litio e l’acqua che serve per estrarlo; la grande installazione di Eduardo Basualdo che immagina una sorta di Pompei moderna, post-catastrofica; la ricostruzione del “Panteon dei libri” di Marta Minujìn, innalzato sulla Avenida 9 de Julio nell’estate della fine dell’ultima dittatura.
Non mancano, come omaggio al passato, alcuni “tagli” di Lucio Fontana.
Per chi può andare al cinema nei pomeriggi infrasettimanali, è anche prevista una rassegna di cinema argentino.

Per approfondire:
https://www.pacmilano.it/argentina/?gad_source=1&gclid=CjwKCAiAyp-sBhBSEiwAWWzTntWWDv9yhoZCSr6BoV6cKrOQnBeCX8xqrzmb3B50MC5IAkRgdHpSoRoCgG8QAvD_BwE

2023-11-26 Giorgio Morandi a Palazzo Reale

Il famoso “pittore delle bottiglie” è una vaga conoscenza di tutti noi; ma per capire chi è stato davvero e la sua importanza nel Novecento, ci voleva una mostra come questa, ricchissima, completa e ben illustrata.

https://www.palazzorealemilano.it/mostre/1890-1964

L’opera di Morandi (1890-1964) nasce in ambito metafisico come quella di Carrà e De Chirico, negli stessi anni Dieci; risente inizialmente dell’influenza di Monet, del futurismo e soprattutto di Cézanne, ma trova presto un proprio linguaggio, pur senza interrompere mai il dialogo con i Maestri.

Sono affascinanti le prime sale, in cui Morandi  prova diverse strade, impasti pittorici molto diversi tra loro, immagini post-cubiste, uso del colore impressionista oppure quattrocentesco.

Poi sviluppa i propri temi senza più esitare.

Bisogna vedere queste 120 opere per capire quanto possano esprimere alcune bottiglie (e in qualche caso conchiglie) variamente assemblate su un tavolo; siamo a un passo dalla pittura astratta, ma le volumetrie e lo spazio contano ancora.

Peraltro, accanto alle famose bottiglie Morandi coltivò sempre il paesaggio: sempre in un microcosmo, le colline dell’Appennino bolognese con i loro calanchi, oppure il cortile di casa e i tetti che si allontanano, ma dietro a una parete che blocca buona parte della visuale, come una siepe da infinito leopardiano.

Negli ultimi anni, le forme vanno disfandosi e rarefacendosi; e alla consueta pittura a olio si affianca l’acquerello.

2023-11-12 Francisco Goya a Palazzo Reale

Torna l’autunno e torna il piacere di passare una domenica a Milano: e, anche se non vorrei trascurare i musei, Palazzo Reale è un vero hub di mostre (difficile scegliere in questo momento tra El Greco, Giorgio Morandi, Gabriele Basilico..). Stuzzicati dal nuovo abbonamento proposto dal Comune (15 €/anno per i Musei Civici, più un 20% sulle mostre di Palazzo Reale: una vera novità), abbiamo scelto la mostra di Goya.

Artista che mi colpì al liceo per i suoi “disastri della guerra”, oltre che per le inquietanti raffigurazioni stregonesche e, naturalmente, per la sensualità della Maja vestida (e soprattutto desnuda): ma difficile da vedere dal vivo se non si va a Madrid. Un’occasione, quindi.

Va detto subito che in questa mostra non si vedrà nessuno dei quadri di Goya più o meno famosi, quelli che trovate sui libri di storia dell’arte: non si può pensare che il Prado sposti la Maja desnuda, la Duchessa di Alba o il ritratto di gruppo della famiglia reale; tranne uno, che vedremo. È comunque una mostra che merita senz’altro, perché l’opera del maestro di Saragozza è vasta, e molte opere meno note sono ben in grado di fare le veci delle altre.

Vediamo così innanzitutto la prima fase della sua pittura: quella della faticosa scalata al successo, fino a diventare primer pintor de la càmara real, e quindi i ritratti del re e della regina, e di vari altri nobili.

Scopriamo una bella serie di dipinti dedicati ai giochi dei ragazzi di strada, e una dedicata alla tauromachia: ossessione spagnola cui soggiacerà anche Picasso, e che Goya affronta tre volte, nel corso della vita, con approcci ben diversi.

Vediamo i dipinti religiosi eseguiti su commissione (alcuni francamente brutti) e gli splendidi ritratti di giovani aristocratiche e seducenti majas (come dire demi-mondaines),

oltre che degli amici illuministi: una volta raggiunto il successo materiale, l’artista può permettersi di iniziare a pensare più a fondo alla vita e alla società.. abbiamo così bellissimi ritratti degli amici intellettuali,

ma soprattutto iniziano i Capricci e i Disparates, le famose acqueforti, spesso grottesche, o di significato poco chiaro, ma dal grande fascino.

Tra queste possiamo vedere la sua opera forse più famosa in assoluto: l’acquaforte “Il sonno genera mostri”.

Goya ha passato la sessantina quando la Spagna subisce l’invasione napoleonica, accolta ben diversamente che nell’Italia colonia austriaca: gli spagnoli sono da secoli padroni in casa loro, e reagiscono con una feroce guerriglia, che darà origine ai famosi dipinti delle fucilazioni e ai terribili Disastri della guerra, di cui vediamo diversi truculenti esemplari; che purtroppo sembrano presi da un telegiornale di questi giorni.

Il fascino di Goya è nel suo illuminismo tutt’altro che luminoso e razionale come quello francese, bensì faticosa lotta contro la barbarie, la follia e l’ignoranza umana: tanto da prendere presto toni preromantici.

In questo l’opera forse più conturbante di tutte è “La casa de locos”, il manicomio (che frequentava per visitare due parenti): che diventa metafora e specchio della società umana.

La mostra si conclude con l’autoritratto a 69 anni (il terzo che vediamo nella mostra e il sedicesimo che ci ha lasciato! Amava autoritrarsi, come il suo ispiratore Rembrandt qui seguito da vicino) e con la potente immagine del Colosso, emblema della mostra: lo ricordavo interpretato come il terrore suscitato dalla guerra, scopro che potrebbe essere invece una celebrazione della resistenza spagnola contro i francesi, e che sarebbe “attribuito” a Goya!

Per informazioni ufficiali:

https://www.palazzorealemilano.it/mostre/la-ribellione-della-ragione

(dimenticavo: l’abbonamento di cui all’inizio si sottoscrive al Museo del Novecento, non a Palazzo Reale. L’ingresso intero alla mostra è 15€)

(resta il dubbio sulle pinturas negras, l’opera dei suoi ultimi anni di vita, originariamente alle pareti della Quinta del sordo, il suo buen retiro campagnolo: chi le ha mai viste? Dove si trovano?).

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2023-03-16: Ritratto dell’artista da morto

Luca Misiti: chi era costui?

Nel monologo scritto da Davide Carnevali e ottimamente interpretato da Michele Riondino, inaugurato ieri al Piccolo Teatro Melato, Misiti è un ignoto “desaparecido” argentino, con cui il protagonista viene casualmente in contatto per via di una comunicazione giudiziaria: mentre si trova a Milano per registrare uno spettacolo, gli viene comunicato che un suo lontano parente, emigrato in Argentina decenni prima, avrebbe comprato nel ’78 l’appartamento già appartenuto a Misiti; che ora va restituito alla famiglia dello scomparso, a mo’ di parziale risarcimento. Essendo irreperibile il parente, di cui anche il nonno del protagonista, interpellato, non sa o non vuole dire molto, al protagonista narrante non è rimasto che recarsi sul Rio de la Plata.

Le ricognizioni tecniche dell’appartamento in questione diventano in realtà indagini sulla fine del proprietario, forse facilitata dagli ambigui vicini o dal portiere. Inizia così un processo di conoscenza e addirittura di identificazione con la vittima: rapita o uccisa quando aveva la stessa età del protagonista, nel fatidico giorno della partita Italia-Argentina nei “Mondiali della dittatura”, proprio quando il narratore veniva forse concepito.

In un gioco di specchi molto argentino e quasi borgesiano, il protagonista Michele si rispecchia nel musicista Misiti, che nel ’78 stava a sua volta riscoprendo l’opera di Josef Schmit, alias Ettore Feliciani, musicista italiano ebreo incaricato nel ’38 dal regime di comporre una colonna sonora, impossibilitato nel ’39 a eseguirlaa causa delle leggi razziali, e deportato nel ’41.

Tramite un abile gioco di rimandi testuali che legano epoche e ambiti diversi, il narratore lega la “ultima dittatura” argentina al fascismo (con qualche forzatura, perché, se ricordo bene, la prima non perseguiva ebrei e omosessuali) e soprattutto all’attualità, con le “asettiche stanzette bianche” del centro di prigionia di San Isidro che rivivono nella perquisizione all’aeroporto di Ezeiza, oggi, ma anche ai “reparti di confino” nelle nostre fabbriche dove si pratica mobbing estremo (l’interprete è anche attivista per i problemi dell’ex ILVA di Taranto).

Il lungo e coinvolgente monologo si conclude con una doppia apertura della “quarta parete”: prima il pubblico viene invitato a entrare sul palcoscenico, dove diversi reperti della vita di Misiti sono stati recuperati ed etichettati come testimonianza; poi la viceregista spiega come, per la morte imprevista dell’autore, l’opera sia stata adattata (per esempio smussando discorsi espliciti su torture e aggiungendo brani musicali, ma escludendo un’apparizione finale di Misiti, il cui destino rimane ignoto).

Resta un filo di incertezza sul gioco tra realtà e finzione: almeno la vicenda personale di Misiti è un nucleo storico su cui si è concrezionata l’autobiografia immaginaria del narratore (come sembrerebbe dai reperti esibiti a fine spettacolo), o è anch’essa una “verità storica fittizia”, come sembrerebbe dal fatto che non sono riuscito a trovare riscontri in rete, compresa la pagina Wikipedia dedicata a Schmit/Feliciani, di cui nello stesso spettacolo si parla come di una finzione fatta passare per verità storica?

Si tratta, probabilmente, di un ulteriore messaggio dello spettacolo.

https://www.piccoloteatro.org/it/2022-2023/ritratto-dell-artista-da-morto

2023-03-04: “La Maria Brasca”, di Giovanni Testori

Finalmente incontro Testori, “il Faulkner della Brianza” di cui sinora avevo solo letto (con piacere) “Il Fabbricone”. Ricorre il centenario della nascita e questo è uno dei più importanti allestimenti che lo celebrerà (oggi l’ultima rappresentazione!); per la regia di Andrée Ruth Shammah, una delle fondatrici del Teatro Franco Parenti, che quest’anno celebra i suoi 50 anni (come l’Elfo: quanti fermenti in quegli anni Settanta).

La Maria Brasca è un’operaia di un calzificio di Niguarda (siamo nel ’60, Celentano canta “24’000 baci”, che in realtà uscì nel ’63, ma poco importa): giovane ma non giovanissima, infatti la sorella maggiore Enrica la rimprovera che potrebbe già avere casa e figli come lei; il che, data l’epoca, ci permette di darle 25, massimo trent’anni. La Maria preferisce godersi la vita, orgogliosa del suo stipendio e dell’autonomia che le dà: ora convive con la sorella e il cognato Angelo, contribuendo al loro ménage; ma un domani, se volesse..

Ma per ora preferisce essere libera e godersi alla luce del sole, senza le meschine tresche del cognato, i suoi compagni: prima “un industrialotto di Affori”, ora il bel Romeo Camisasca, che la incendia di passione nonostante la differenza di età (cosa che ai tempi veniva fatta pesare, così come il suo essere “libera” non era inteso come complimento): riuscirà anche a riconquistarlo dopo che lui aveva tentato un’evasione con la povera Renata del Fabbricone, che finirà moralmente distrutta dalla “tigre di Niguarda”.. Per due ore Maria è un fiume in piena di vitalità, femminilità e sensuale e pulita gioia di vivere, in contrasto ma anche in modo complementare alla sorella maggiore, sfiancata dalla vita di madre di famiglia disillusa; il tutto espresso in un bell’italiano improntato al dialetto milanese.

Solo acennati temi più significativi: la condizione della donna, le differenze di classe (“si sono presi tutto quello che gli conveniva e ora possono spremerci.. ma a noi è rimasto questo!” grida al suo Romeo), soprattuitto la condizione omosessuale dell’autore: se vediamo la Maria come un Giovanni, per dire, la storia assume molti significati aggiuntivi. Uno spettacolo senza pecche: dalla bravura dei comprimari alla poetica scenografia neorealista e dai colori pastello; con le musiche di Fiorenzo Carpi e una canzone introduttiva di Adriana Asti, storica interprete di quest’opera, che fu inaugurata da Franca Valeri al Piccolo nel ’60. Volendo cercare il pelo nell’uovo, la bravissima protagonista avrebbe potuto avere un accento milanese più marcato ed essere più sboccata e spigolosa (mi immagino appunto la Valeri), ma è davvero un’inezia.

2023-02-26: mostra Generale dalla Chiesa

A chi si trovasse a fare una passeggiata in centro oggi, segnalo la mostra sulla vita del generale dalla Chiesa, a ingresso libero in Palazzo Reale (purtroppo finisce oggi).

Una serie di espositori ne ripercorre la carriera: dalla guerra in Jugoslavia alla repressione del brigantaggio siciliano, comprese le indagini sull’uccisione del sindacalista Placido Rizzotto, concluse con l’arresto di Luciano Liggio (poi assolto); e soprattutto i due periodi che lo misero al centro delle cronache, la repressione del terrorismo di sinistra e il ritorno in Sicilia: come l’altro “prefetto di ferro” cinquant’anni prima, una precedente esperienza siciliana gli valse l’incarico di riportare la legge in una Regione divenuta ingovernabile; purtroppo con esiti ben diversi.

La mostra è sintetica e celebrativa, non c’è spazio per le tappe controverse (l’irruzione nel covo di via Fracchia, il fratello pure generale e iscritto alla P2), ma penso che non sia importante; l’importante è avere un’occasione per riflettere sulla forza di chi ha parassitato lo Stato per decenni, con ampie connivenze. Ricordo infatti il figlio raccontare di aver trovato vuota la cassaforte del padre nella sua caserma a Palermo. Soprattutto rifletto sul fatto che la mafia non si espone uccidendo, se non è costretta a farlo: per motivare un delitto così clamoroso, il Prefetto di Palermo doveva avere in mano carte scottanti; chi gli succedette avrà saputo o potuto utilizzarle?

2023-02-25: Lu santo jullare Francesco, di Dario Fo

I giullari, si sa, erano veri protagonisti della vita di corte medievale: gli unici autorizzati a dire al signore tutto quel che pensassero, e con licenza di usare linguaggio corporeo e scurrilità anziché l’aulico latino di tutti gli altri; eppure, quanto dicevano non era meno sensato, anzi.

Le “giullarate” di Dario Fo sono sempre andate nella direzionedi riscoprire linguaggi e forme espressive dimenticate dalla tradizione più “alta”: e nel caso di questo lavoro, la riscoperta linguistica si accompagna a una riscoperta storica.

Tutti sappiamo che Francesco è il santo cristiano più amato ovunque e da chiunque anche al di fuori della Chiesa, ma rischiamo di dimenticare che “è anche il più censurato”, come ammonisce Mario Pirovano, erede artistico di Dario Fo, “della prima versione della sua Regola non rimane nulla”. Ma non solo. Dopo che Bonaventura da Bagnoregio, 40 anni dopo la morte del Santo, ne ebbe scritto la Legenda Major, ovvero la “biografia ufficiale”, “ogni altra fonte sul Santo è stata cancellata”. Non so se sia proprio così o questa sia una drammatizzazione teatrale: resta la Vita Sancti Francisci di Tommaso da Celano, per esempio. Ma è sicuramente vero che sulla vita del Santo c’è stata molta propaganda e contropropaganda; ricordo personalmente la delusione quando lessi i Fioretti, opera sicuramente meravigliosa, ma che, essendo in volgare, credevo provenire direttamente dall’entourage del Santo. Invece no: è la traduzione trecentesca di un originale in latino, il Floretum, anch’esso piuttosto tardo..

Ma veniamo allo spettacolo. Presentato a Spoleto nel ’99, nasce dallo studio da parte di Fo delle fonti appunto minori o riscoperte dopo secoli, come la “Concione della pace di Bologna”, e ripercorre alcuni episodi noti: l’incontro con il lupo di Gubbio, il confronto con il “papa guerriero” Innocenzo III, l’incontro con il Sultano a Damietta, l’agonia finale (che diventa tragicomica: ogni città umbra vuole che muoia da loro, per poter costruire una cattedrale immensa..). Vengono esaltati gli aspetti terreni e umani della vita del Santo: il pacifismo, la povertà, la gioia della natura come manifestazione divina, l’invenzione del presepio come alternativa al pellegrinaggio (che poteva scadere a business, nonché casus belli); a scapito del misticismo più astratto. Non ci sono illazioni su santa Chiara, altra buona cosa. Pirovano si dimostra ancora una volta eccezionale nel tenere il palcoscenico per due ore: un fiume in piena di grammelot, dove insieme all’umbro compaiono tutti i dialetti italiani e influenze di altre lingue neolatine, di recitazione giullaresca e corporale, di toni ora alti e persino solenni, ora buffoneschi.

Posso solo consigliare di non perdere questo geniale interprete quando rappresenterà “Mistero Buffo”, al Lirico il 22 marzo.. e di dare un’occhiata al suo profilo in Facebook: la sua vita vale la lettura!

Fraternité, 28/01/2023

E se una misteriosa eclisse portasse via metà del genere umano? Come sopravviverebbero, emotivamente, i superstiti?

“Fraternité”, della franco-vietnamita Caroline Guiela Nguyen, mette in scena un dramma dalla cornice fantascientifica, che indaga soprattutto le reazioni umane alla perdita dei propri cari, le fasi delle elaborazione della scomparsa, la solidarietà o meglio fraternità tra chi è stato colpito nello stedsso modo.

La scena è quella di un Centro di Cura e Consolazione, dove chi ha perso un proprio caro può lasciare messaggi che si spera verranno ascoltati: gli scomparsi infatti non sono definitivamente tali, ma c’è speranza di un ritorno, in un’altra Grande Eclisse. E se non bastasse una eclisse, provvederà la macchina MEMO: al prezzo della cancellazione dei ricordi più cari delle persone amate, riavvierà i battiti cardiaci di chi li ha perse, riattivando al tempo stesso, per una misteriosa consonanza, movimenti cosmici, chea loro volta permetteranno un’altra, si spera risolutiva, eclisse. Torneranno gli scomparsi? Ascolteranno i messaggi lasciati loro? Chi li ha a lungo attesi rallentando il proprio tempo, sopravviverà al ritorno al tempo normale?

Una trama evidentemente più psicologica o new wave che da fantascienza hard; espressa con grande efficacia da attori di varie nazionalità, non tutti professionisti, che recitano anche più scene in contemporanea anche con l’utilizzo di schermi in parallelo all’azione scenica; tra loro spiccano il tamil Ceilian, l’araba Dunja con i suoi messaggi rimati in stile rap, e Ismène (l’americana Rachel, con la sua tuta della NASA, dev’essere invece una simpatica citazione di Alien..).

Spettacolo impegnativo, non tanto per le 3 ore di durata quanto perché recitato principalmente in inglese e francese (sono a disposizione schermi con sottotitoli in italiano); le espressioni in arabo sono in genere tradotte direttamente da alcuni attori ad altri attori, o anch’esse sugli schermi.

https://www.piccoloteatro.org/it/2022-2023/fraternite-conte-fantastique